martedì 1 aprile 2008

Neve

L'inverno iniziò la mattina del 21 dicembre, straordinariamente puntuale. Per qualche giorno soffiò un vento gelido dal nord, che percorse velocemente l'Europa, spazzando via la foschia e lo smog, che l'autunno, fin troppo mite, ci aveva avvolto addosso come un'umida coperta. Le temperature scesero di molti gradi sotto lo zero. Sotto un magnifico cielo turchese e incontaminato, l'aria divenne limpida. Se dai colli alle spalle della città guardavi ad est, vedevi il riverbero della luce mattutina sul mare e, più in là, le montagne di altri paesi. I colori della sera erano bellissimi, si caricavano di rosso, il cielo diveniva quasi verde per poi spegnersi e lasciare la scena alla luna. Nei primi giorni di gennaio il cielo iniziò a macchiarsi delle prime nubi, la temperatura diminuì ulteriormente. In seguito le nubi si addensarono e formarono una coperta uniforme che si estendeva, secondo le notizie dei giornali, su gran parte dell'Europa Centro-Meridionale. La città sembrava attendere, come avesse avuto il presentimento di quello che sarebbe accaduto, sebbene la vita si muovesse alla solita, frenetica velocità. Le giornate erano cupe, la massa nuvolosa schiacciava gli animi sotto il suo peso. Gli unici che osservavano la coltre impenetrabile, rallegrati, erano i bambini, che sentivano nell'aria l'odore della neve. E la neve non si fece attendere.
Un pomeriggio i fiocchi iniziarono a staccarsi dalla nuvola madre e a posarsi silenziosamente sulla terra. Poco a poco i vari pezzi ricomposero il puzzle bianco sugli alberi, sulle case e sulle persone. I rumori, filtrati dalla sostanza morbida e gelida, sembravano più lontani e rassicuranti. Si aprirono le porte delle case e uscirono i bambini, strillavano dalla gioia. Riconquistavano l'acqua, che oggi appariva nella configurazione geometrica più elegante ed adatta al gioco.
Le strade si svuotarono, vedevi solo passeggiare la gente incantata dalla magia di quel momento: quelli che vagavano con gli occhi al cielo, la bocca aperta con le labbra screpolate. C'erano anche quelli che odiavano la neve e si affrettavano nel loro bagno caldo per osservare la situazione dall'interno, attraverso un vetro appannato. Il tempo era dilatato, rallentato. Ci si fermava per un istante di qualche ora, rapiti dalla meraviglia, o dal suo ricordo.
Erano passate alcune ore, tutto era ricoperto dal manto bianco, era tardi e la città stava dormendo quando ci fu un bagliore e poi un tuono: il cielo, mai stato così vicino alla terra, alla fine si spezzò sbriciolandosi al suolo in una moltitudine di frammenti di infinito.
La neve cadde violenta ed abbondante, seppellendo tutto.

Dopo due settimane di nevicate, la vita continuava perlopiù nelle case. Passavo i brevi pomeriggi facendo lunghe passeggiate. Ero disoccupato, questo mi permetteva di avere fin troppo tempo libero a disposizione e spesso mi perdevo nei labirinti della meditazione. Una sera, dopo la mia consueta camminata, mi fermai in libreria. Erano settimane che cercavo un libro che mi piacesse, ma non riuscivo a trovarlo. Avevo un senso di sazietà nei confronti della cultura. La cosa che mi turbava maggiormente era la perdita del mio magnetismo nei confronto dei libri: la dote con la quale entri in una libreria e vedi un libro che colpisce la tua attenzione, inizi a sfogliarlo e nasce in te la voglia di perderti dentro di lui.
Ora mi rimaneva solo quella noia, che mi portava al reparto informatica per scorrere velocemente le copertine multicolore, di volumi costosissimi e scritti da qualche ingegnere col vomito in serate illuminate dal neon. Non volevo imparare nuovi linguaggi o capirne di più del mio sistema operativo, mi perdevo in visioni bucoliche della rete: case di campagna intelligenti, amici in tutto il mondo. Vedevo un futuro migliore, fatto di tecnologia utile, che permetteva di vivere appieno il proprio tempo libero. Mentre capivo che la predominanza dell'azzurro e del senso di pulizia nelle mie visioni era il segno che qualcuno da qualche parte aveva meritato la promozione, fui riportato alla realtà da qualcosa che mi tirava verso il suolo: io palloncino, lei bambino che mi strascica.
- Ciao! - disse.
La scrutai, in un primo momento riconobbi solo un naso rosso, collegato in qualche modo al cappello che le ricopriva gli occhi. Poi il mio cervello ricompose le varie parti e ne fece Monica, una mia compagna di classe delle superiori. In un solo secondo fui catapultato dal futuro azzurro e improbabile ai miei magnifici diciassette anni.
All'idea di Monica associavo le sensazioni e i colori di Maggio, quello in cui preparammo la commedia. Non ricordo più il nome dell'autore e dell'opera, di sicuro era un lavoro un po' debole e piaceva veramente solo alla nostra professoressa. Il giorno in cui mi assegnarono la parte principale maschile e a Monica quella femminile, ebbi un sussulto del cuore, un leggero senso di panico e mi sentii un po' in trappola. Andai a congratularmi da lei, capii che tutto sarebbe stato più facile, perché Monica aveva una sorta di forza interiore che io non avevo, alla quale mi aggrappai. Passavamo interi pomeriggi a provare sul prato antistante il liceo, tra i fiori e fumando dieci sigarette. Lei era sempre in ritardo perché dopo pranzo faceva un pisolino, le serviva perché aveva sempre troppi impegni: la piscina, la pallavolo, il circolo parrocchiale, il circolo di letteratura. Non parlava molto, non c'era nessuno che potesse dire di conoscerla profondamente, a parte Marta, ma quando iniziava a recitare brillava. Emanava calore e trascinava chiunque. Riusciva persino a stimolare la professoressa, notoriamente disillusa e annoiata, alla quale Monica suggerì la scena del pidocchio, citata per anni a tutte le cene.
Avevo diciassette anni, allora, e diciassette trilioni di ormoni per millilitro di sangue, ma non vidi mai Monica come una donna, nel senso sessuale del termine, perché essa apparteneva alla sfera giocosa della mia mente, perché con lei era sempre e solo spettacolo. Così ci salutavamo ogni sera con la promessa di riprovare una battuta o due con una accezione diversa, o magari ci facevamo una risata. E infine lei scompariva dietro i cipressi del cimitero, con quella sua bicicletta da uomo arrugginita e la sua testa leggermente inclinata, canticchiando.
Un giorno arrivò Mauro, l'ignorante, che divenne il suo ragazzo e se la portò via. Lei tagliò ogni rapporto con noi del liceo e dopo gli esami di maturità non la vidi più.
Ora che era ricomparsa, dopo dieci anni di assenza, stentavo a riconoscerla.
La salutai, due baci sulle guance, sorrisi e un po' di nostalgia.
Mi raccontò che si era laureata in chimica e tecnologie farmaceutiche e ora lavorava presso una multinazionale. Le avevano dato il cellulare, il portatile, una macchina e l'avevano messa su una strada a viaggiare dalla mattina alla sera. Mi disse che il lavoro le piaceva poco, perché aveva a che fare con medici, che firmavano contratti in cambio di palmari, cellulari, stampanti... i più raffinati volevano vino e orologi. Tanta varietà la deprimeva. Ma guadagnava discretamente, quindi non poteva lamentarsi.
Mi disse che la sua passione per il teatro non l'aveva più coltivata e, invece, cantava in un gruppo che suonava blues. E infine che no, non stava più con Mauro da circa otto anni.
Volle sapere tutto di me. Si chiedeva perché fossi ancora disoccupato, con tutte le potenzialità che avevo. Iniziò un banale discorso sul fatto che la nostra società mantiene una classe di vecchi, che impediscono a noi, nuove potenze dell'intelletto, di emergere. Io provai a spiegarle che c'era anche da parte di noi giovani una certa propensione alla pensione e che ci eravamo abituati troppo presto all'idea del relax e dello svago, finendo per misurare la vita nei momenti di calma piatta. Lei non era d'accordo e iniziò un monologo sulle cose belle della vita, che dovrebbero appartenere ad ognuno di noi e sui principi che non ci sono più.
Ben presto, però la conversazione, o meglio il monologo, prese una strana piega. Iniziarono a fioccare domande sui nostri compagni di classe, poi c'erano milioni di pettegolezzi sui professori, che a quanto pare si davano da fare per mantenere viva l'attività sessuale del liceo. A questo punto io non ne potevo più, la conversazione si era trasformata nella solita lunga elencazione di fatti insignificanti che non riguardavano la vita di nessuno, spesso le cose si raccontavano in maniera ironica e con più di un pizzico di cattiveria. Dopo dieci minuti eravamo coscienti del fatto di essere estranei e che dieci anni trascorsi erano un baratro che ci divideva. Forse se non ci fossimo mai conosciuti sarebbe stato meglio, almeno non avremmo avuto quelle esperienze in comune a cui aggrapparci, come scogli nel mare dell'imbarazzo. Eravamo due sconosciuti intrappolati nella banalità.
Non riuscivo a uscirmene con qualcosa di interessante, originale o insensato. Cercavo, cercavo nell'aria, graffiavo l'aria con lo sguardo per avere un'idea.
Infine la trovai, quell'idea: liquida e nera.
- Prendiamo un caffé? - proposi.
- Okay, ma io prendo una cioccolata calda. - disse.
Ce l'avevo quasi fatta, ma non la considerai una sconfitta.

Uscimmo dalla libreria, l'aria gelida ci investì, di corsa entrammo nel Caffé del Centro. Ci sedemmo al tavolino vicino alla vetrata ed aspettammo il caffé e la cioccolata. Monica si tolse il cappello e il giubbotto, così vidi quanto era cambiata. I capelli castani e ricci, spiaccicati tra loro dal cappello, le arrivavano alle spalle, lei li mosse con una carezza per renderli più vaporosi. Il grosso naso rosso stava incastonato tra la grossa bocca violacea e i grandi occhi egiziani a rafforzare la sensualità del viso. Era divenuta una donna, le tenui rughe intorno agli occhi rivelavano i primi segni di maturità. Riprese il discorso, ma non l'ascoltavo, invece me la immaginavo vecchia, che elargiva consigli ai suoi nipoti, mentre faceva la calza. Subito dopo pensai che la calza non la faceva neanche mia nonna. Era un futuro improbabile, quello che mi prefiguravo, perché il suo destino di donna in carriera, forse, non le avrebbe permesso di avere figli. Avrebbe vissuto serate insensate in qualche albergo, in qualche città sconosciuta, in compagnia di qualche interessante gentiluomo monodose.
Riacquistai la cognizione del presente: lei mi stava sommergendo di notizie tecniche sul suo lavoro e si lamentava di un suo collega col sorriso purulento. Finalmente arrivò il caffé e una enorme tazza di cioccolata ricoperta di panna che tracimava dall'orlo per inondare il piattino sottostante. Il cameriere robusto, con compiacimento, ci portò anche dei biscottini della casa: prima di andarsene mi mandò un'occhiata di complicità, come se conoscesse la golosità umana più di ogni altro.
Il mio caffé era delizioso, i biscotti, ricoperti da un velo zuccherino, divini. Monica fu sopraffatta dalla sua cioccolata e insistette perché l'assaggiassi, non fui timido: cioccolata al latte che mi sciolse la gola. In un tripudio di gusto come quello, le mie narici, esauste e in sciopero a causa del maltempo, si riaprirono e mi fecero sentire il mondo dei profumi. Guardai il cameriere, stava mangiando un cioccolatino. Mi strizzò l'occhio: lui sì che sapeva come conquistare il palato di noi umani.
Mi girò la testa, ero stato travolto da troppi aromi troppo rapidamente. Iniziai a sentirmi diverso, più positivo, anche i colori di quel posto divennero più vividi, mi accorsi che stavo registrando ogni minimo istante e particolare intorno a me.
Notai un aroma di fondo, un aroma che amalgamava vaniglia e pistacchio, caffé e crema, cioccolato e liquirizia. Una sorta di base aromatica di ogni profumo del mondo, che proveniva da qualcosa di caldo, perché riempiva l'aria di calore e di dolcezza. Cercai la fonte di questa essenza, come un rabdomante guidato dalle narici, ma solo uno spostamento d'aria causato da un passante me la fece trovare.
Dopo qualche secondo di silenzio, incuriosita dalla mia espressione ebete, Monica mi chiese che cosa stava succedendo, perché me ne stavo lì, naso all'aria, a cercare chissà che. Non risposi, ma farfugliai qualcosa di vago, che però la convinse del fatto che anch'io dovessi essere, dopotutto, un po' scoppiato e sorrise come se niente fosse, riprendendo dal punto preciso e insignificante dove aveva lasciato il discorso. Insieme a lei riprese, con uno sbuffo di sufficienza, la vita del bar, che in quel momento si era fermata per seguire la mia spiegazione insulsa. Ogniqualvolta mi si sorprendeva a vagare nei miei pensieri, nel vastissimo mondo della mia immaginazione, mi sentivo imbarazzato: quel giorno mi succedeva per la seconda volta.
Ma ora cadevo a terra con una consapevolezza: la fonte battesimale di tutti gli odori del mondo era Monica.
Piano piano l'essenza femminile che scaturiva dalla pelle giallastra di quella donna, mi inebriò completamente e sentii il sangue scorrere nuovamente in rivi che aveva abbandonato da tempo. Sentii formicolio al volto, inondato da nuova linfa, e le mani calde e vaporose emanavano radiazioni. Ruppi in un secondo la sovrastruttura dell'abitudine e gli ammortizzatori tra la realtà me stesso, mi sentii nuovamente di buon umore dopo troppo tempo. Ora avevo veramente qualcosa di interessante da ascoltare e da dire, così, iniziai io il mio monologo, che il cameriere avrebbe trovato di cattivo gusto, ma che investì positivamente, lo sentii, la mia compagna. Finalmente i discorsi tra noi scorrevano limpidi e non avevano nulla a che fare con il passato, erano nuovi e freschi. E noi eravamo nudi l'uno di fronte all'altra a raccontare la nostra storia e ad accarezzare il nostro cuore, riscaldandoci dalla neve di quel terribile e magnifico inverno.

Uscimmo dal Caffè del Centro saturi di cioccolata, ne avevamo assaggiato tre tipi diversi, e andammo nella prima pizzeria per cenare, senza appetito. Monica era fenomenale, negli anni di studio aveva coltivato un gran numero di interessi, che il lavoro, per forza di cose, aveva drasticamente ridotto. Mi accorsi che era una di quelle persone che riescono ad avere tempo per fare tutto, contrariamente al sottoscritto, che doveva prendersi grosse pause di meditazione e vivere nei meandri della propria mente metà della propria esistenza. Mi chiedevo come una persona potesse: laurearsi nei tempi prestabiliti, cantando in un gruppo blues, lavorando il sabato e la domenica in pizzeria, svolgendo attività fisica in piscina, andando due o tre volte l'anno in viaggio all'estero, conoscendo due milioni di film, libri e canzoni, essendo informata della situazione politico-economica del proprio paese e restando una persona simpatica, semplice e interessante. Il cervello e il corpo vanno nutriti continuamente, con stimoli diversi, mi disse. La pensava anche lei alla mia stessa maniera, ovvero che il cervello se stimolato sempre con la stessa tipologia di informazione, prima o poi ha una sorta di rigetto. Mi capitava, ad esempio i primi anni di università, quando mi accanivo contro quei quattro libri in modo da approfondire il più possibile le materie, senza ottenere risultati molto soddisfacenti, sempre che non si consideri soddisfacente una formidabile emicrania ogni sera e voti relativamente bassi, rispetto all'impegno profuso. Poi mi resi conto che valeva la pena frapporre lunghi periodi di cazzeggio tra un'ora di studio e l'altra, una sana attività teatrale la sera e birre con gli amici in grande abbondanza. Il mio rendimento scolastico aumentò e le mie emicranie diminuirono in maniera inversamente proporzionale. Non riuscivo ancora a capire una cosa: nella mia teoria nutrizionale del cervello ( non esiste, in realtà, quella per il corpo, e si vede) avevo sempre inserito un principio basilare, quello secondo il quale ci devono essere momenti di noia terribile, nei quali ci si riposa e si accumulano energie per ripartire più carichi di prima. Monica falsificava il mio assioma, ne fui turbato nel mio intimo: avevo sbagliato! Esistono persone con più carica energetica?
Notai che in molte ore di conversazione, in puro stile "associazioni libere freudiane", non fu fatto cenno, da parte di Monica, ad alcun fidanzato nel suo presente o passato. Continuavo a rimanere aggrappato all'odio per Mauro La Merda, detto L'ignorante. Contrariamente al sottoscritto che sbandierava, solitamente, i propri formidabili fallimenti amorosi, raccontandoli in chiave comica, notai un velo di tristezza negli occhi di lei, così decisi di stare alla larga da quei discorsi.
Uscimmo dalla pizzeria che era quasi mezzanotte. Il vento gelido che portava ancora con se fiocchi di neve, ci trapassava i vestiti e penetrava nell'interno della carne rinvigorendola. Sentii il braccio di Monica stringersi al mio sotto l'ascella, sentii la sua presa decisa che si aggrappava a me per non scivolare.
- Vuoi vedere un posto veramente unico? - chiese.
Annuii.
- A dieci minuti da qui ho parcheggiato, andiamo! - disse, tremolando col mento.
Andammo su un colle, uno di quelli che cingevano la parte meridionale della città. Il viaggio fu un po' difficoltoso, a causa delle strade innevate e della visibilità limitata, in capo a mezzora eravamo giunti a destinazione. Mi disse che veniva spesso in quel posto per osservare la vita dall'alto, con assoluto distacco. Le piaceva osservare i minuscoli puntini di luce ed immaginare i loro pensieri, talvolta, quando era indaffarata nella vita di tutti i giorni si chiedeva se qualcuno, da qualche punto su qualche colle la stesse osservando e si stesse chiedendo le medesime cose. Mentre lei parlava, seduto nel tepore dell'abitacolo vidi la maestosità della città. Sembrava un mare arancio e bianco che si perdeva nel nulla, una sfumatura anomala del cielo grigiastro che si tramutava in fiocchi. I pochi puntini colorati, le automobili di quelli che si aggiravano nel freddo di quell'ora, parevano linfa luminescente incanalata nelle arterie di un gigante. L'altezza dei grattacieli si dileguava nell'oscurità, ne vedevi solo la base luminosa, come proiettata al suolo da una invisibile torcia elettrica superiore.
Monica mi aveva portato fin lassù per farmi vedere quello spettacolo perché mi conosceva profondamente, sapeva che non potevo resistere alla bellezza. Così corsi fuori, inciampai nella neve alta quasi un metro e cominciai a ridere come un bambino. Mi girai e guardai il cielo nero, sentii i fiocchi sulle palpebre e mangiai il ghiaccio.
Poi vidi il contorno di lei, nel bianco. Una palla di neve mi colpì in mezzo agli occhi, mi ripulii e mi lanciai al suo inseguimento. Entrambi inciampavamo continuamente, ma alla fine la presi e lei mi baciò. Coi nasi congelati e le guance bagnate, ci baciammo finché non sentimmo più il freddo e saremmo stati là per tutta la notte, ad affrontare la bufera.
Quando aprii gli occhi non vidi più nulla, la città era scomparsa. Non c'era più luce diffusa che permettesse di distinguere i contorni delle cose.
Restammo in silenzio per qualche secondo.
Si vedevano solo le luci delle automobili, le arterie del gigante, procedere lentamente nell'oscurità.
- Guarda! - dissi - Sembrano le luminescenze che si vedono nel mare al chiaro di luna.
- Si. Le stiamo vedendo al rallentatore! - disse - La sera il mare ritorna di dominio dei pesci, ed è tutto un fermento, brulica di vita. Se apri gli occhi sott'acqua vedi la scia di centinaia di animaletti.
In quel momento vedemmo un fuoco artificiale esplodere alto da un palazzo, qualcuno ne approfittava per festeggiare.
- E' bellissimo. Essere quassù e vedere questa meraviglia. - dissi.
- Però è strano - sussurrò - ho una strana sensazione. Tanta bellezza sembra nascondere qualcosa di terribile.
- Spiegati. - mi fece venire un brivido.
- Immagina che il black-out continui per giorni - rispose - la tranquillità di questa immagine sarebbe solo apparente. In realtà in tanta lentezza si nasconde il caos, senza energia e senza viveri, con questo freddo esploderebbe la follia.
- E' vero, ma con te mi sento un po' più sicuro. - affermai sorridendo, ma ero sincero.
- Anch'io mi sento più sicura. Credo che qualcuno abbia spento la luce, perché sapeva che c'eravamo noi, a guardare. - disse.
Ci baciammo ancora, ma avevamo trattenuto il fiato per troppo tempo, ed ora avevamo freddo.
Monica cercò la macchina col telecomando, si accesero le quattro frecce, così trovammo la direzione per il ritorno. Acceso il motore, dalle bocchette scaturì aria calda ed umida. Togliemmo i calzini inzuppati d'acqua, scaldammo le mani doloranti. Ci baciammo ancora. La sua carne bollente si ritraeva alle mie carezze ghiacciate, e io sentivo brividi di piacere quando lei, premendo contro la mia schiena mi avvicinava a se. Facemmo l'amore, come se ci fossimo conosciuti da sempre, ma con il godimento degli sconosciuti. Tra la pelle fresca ed odorosa dei sedili, incontravo ancora l'essenza aromatica di Monica: nella sua bocca umida, nelle sua ascelle fresche, nei suoi sussurri di piacere.
Infine esausti, abbracciati nell'abitacolo, contemplammo la magia dell'oscurità rigata da luminescenze di vita, laggiù nel mare della vita.
Improvvisamente un bagliore ricompose il quadro sottostante, l'energia elettrica era tornata a dar spettacolo, l'enorme lampadario era stato azionato per dar luce al sonno degli sconosciuti.
- E' passata mezz'ora, ma alla fine ce l'hanno fatta. - disse.
- Allora lo spettacolo era proprio per noi. - risposi - Comunque hai sentito quello che è successo a Nord? Migliaia di persone rischiano la vita a causa di questa bufera. Le linee elettriche e i tralicci sono crollati sotto il peso del ghiaccio, ci vorranno settimane per ripristinarle.
- Chissà se la situazione migliorerà, ho sentito che la perturbazione si sta estendendo. Come dicono alcuni, ci sono i presupposti per una nuova glaciazione - aggiunse.
Aspettammo ancora un po', ci rivestimmo e imboccammo la via del ritorno. La bufera si era intensificata: sembrava impossibile, ma oltre ogni grazia divina il cielo era ancora carico e continuava, ancora dopo due settimane, a scatenare furioso la sua collera verso il genere umano. Monica mi lasciò con un bacio pieno di speranze davanti al portone della mia casa, io la salutai con la promessa di rivederci il giorno successivo. Quando scesi, mi resi conto che la temperatura era scesa ulteriormente, rispetto a un'ora prima e la furia del ghiaccio che scendeva dal cielo era implacabile.
Salii verso il mio appartamento, caldo grazie alla formidabile stufa a legna. Andai in bagno per lavarmi, ma non scendeva acqua. Le tubature dovevano essere ghiacciate. Mi coricai a letto, finalmente stanco per davvero. Non c'era più quel surrogato di stanchezza, dovuta alla eccessiva noia ed abbondanza di giornate passate a replicare giornate fotocopiate. Chiusi gli occhi e non pensai più a nulla.

Questo doveva essere il primo capitolo di un mio libro... ho la bozza del capitolo 2, ma penso che non lo finirò mai. Se vi interessa sapere come va avanti ditemelo, ma mi sembra che il mio ragazzo alla fine si addormenti abbastanza tranquillo, quindi ho deciso di lasciarlo dormire.

Vecchia Guardia

Ciao!
Chi si ricorda del vecchio totolo's web site? Quello è ormai stato cancellato da anni... ma ho per voi una chicca ( in realta' chi ne potrebbe gioire in qualche modo è solo Bobo ).
Con un po' di cure sono riuscito a resucitare il mio guest book:
http://books.dreambook.com/totolo/book.html

li' potrete rileggere un po' di cazzate e aggiungerne eventualmente di nuove.

Nostalgia nostalgia canaglia!